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 La Storia dell'Alfa Romeo
 (di Elvira Ruocco)


 Articolo 1

“158” e “159”, le imbattibili del biscione

Nel 1950 il Campionato Mondiale di Formula 1 vede trionfare sui circuiti di tutto il mondo le Alfa Romeo. Nino Farina è il primo pilota a laurearsi Campione del Mondo. Nel 1951 trionfa il suo compagno e rivale Juan Manuel Fangio

Le favolose Alfetta occupano nella storia dell’automobilismo sportivo, un posto di primissimo piano. Dal 1938 al 1951, fatta eccezione per la pausa dovuta al periodo bellico, dominarono su tutte le piste del mondo. Nessun’altra macchina da corsa ha avuto una vita così lunga e forse nessun’altra macchina ha mai concluso imbattuta una stagione sportiva.
La sigla 158 indicava la cilindrata (1,5 litri) e il numero dei cilindri (8). Era stata disegnata da Gioacchino Colombo a Modena e il suo debutto avvenne sotto l’insegna della nuova organizzazione sportiva Alfa Corse diretta da Enzo Ferrari, il 7 agosto 1938 al Circuito del Montenero (Livorno) dove conquistò il 1^ e 2^ posto assoluto.
Con la vittoria del G.P. di Tripoli del 1940, si concluse il primo periodo di affermazioni nelle gare di questa vettura, a causa del conflitto mondiale che obbligò ad una stasi quasi completa dell’attività agonistica. Le Alfetta e le vetture sperimentali furono messe al sicuro; quei sottili bolidi rossi costituivano un patrimonio tecnico d'inestimabile valore.
Con la ripresa delle competizioni nel 1946, furono apportate modifiche al motore che elevarono la potenza dai 225 CV del 1940 a 255 CV. Il Servizio Esperienze, diretto dall’ing. Gian Paolo Garcea si occupò della preparazione e dell’assistenza in gara di questa monoposto che, dopo la schiacciante vittoria (primi tre posti assoluti) al Gran Premio delle Nazioni che si tenne a Ginevra il 21 giugno 1946, fu definita dalla stampa “il simbolo della ripresa del nostro paese”; ”la superba affermazione dell’industria italiana”; “prima nella graduatoria della produzione mondiale di vetture da corsa”.Nel 1950 la Commissione Sportiva Internazionale della F.I.A. organizzò la prima edizione del Campionato Mondiale Conduttori, un ciclo di corse riservato a vetture di formula uno, vale a dire vetture con una cilindrata da 1500 cc. con compressore oppure fino a 4500 cc. senza compressore. Fu una notizia entusiasmante perché mai prima di allora, un titolo mondiale era stato assegnato a singoli piloti. C’era stato un titolo mondiale marche, ma bisognava risalire al 1925, quando l’Alfa Romeo vinse con la P2.
Si capì subito che si trattava di un nuovo straordinario trampolino di lancio per l’industria automobilistica, un campionato ad altissimo livello che avrebbe prodotto nomi e classifiche indimenticabili. Ma divenne anche un territorio di una nuova sfida italiana: le rosse Alfa Romeo contro le rosse Ferrari. Un duello che riportò ai vertici dei valori mondiali la tecnica italiana, ridando, come ai tempi di Nuvolari, senso e colore allo sport automobilistico del secondo dopoguerra.
Dopo la triplice vittoria al Gran Premio del Belgio del 1947 con le Alfetta di Wimille, Varzi e Trossi in testa alla classifica, un giornalista francese scrisse: “…pare di essere tornati indietro di 22 anni quando, proprio qui a Spa, le Alfa Romeo P2 di Ascari e Campari si fermarono ai box e i piloti, seduti a tavola apparecchiata, fecero uno spuntino, tanto era grande il vantaggio sugli avversari”.
Il 1950 fu un anno trionfale per l’Alfetta: 11 vittorie assolute su 11 Gran Premi che portarono l’Alfa Romeo alla vittoria del Campionato del Mondo di Formula Uno, un trionfo celebrato a Monza dove Giuseppe Farina si laureò campione del Mondo. Al secondo posto si classificò Juan Manuel Fangio, il pilota argentino di origini italiane, ingaggiato dall’Alfa Romeo per il suo ritorno alle competizioni.

Farina sulla 158:


Nel 1951, le Alfette, sulle quali furono realizzate importanti migliorie, vennero presentate con la nuova denomimazione “159”. Il motore, dopo l’applicazione dell’alimentazione a doppio stadio, dava al banco 425 CV a 9300 giri/1. Il telaio era stato rinforzato , il retrotreno sostituito con la soluzione tipo De Dion, i serbatoi aumentati per ottenere la capacità di 250 litri e la carrozzeria era stata leggermente allargata per contenere la presa dinamica ed i serbatoi.
Ai box dell’Alfa erano famosi per la rapidità dei rifornimenti: in 22 secondi i meccanici riuscivano a cambiare l’intero treno di pneumatici ed a riempire il serbatoio. Sul pilota durante questi rifornimenti in corsa i meccanici gettavano una mantella di gomma per proteggerlo da eventuali improvvise fiammate o da pericolosi getti di carburante. A differenza delle Ferrari, le Alfetta avevano necessità di un maggior numero di rifornimenti perché dotate di un motore sovralimentato.
L’Alfetta 159 ripercorse le tappe dell’anno precedente, confermando le sue ottime prestazioni sia sui circuiti veloci che su quelli a percorso misto e concluse la sua annata sportiva trionfando al Gran Premio di Barcellona dove conquistò il suo secondo Campionato del Mondo con Juan Manuel Fangio.

Fangio sulla 159:


Questo fu il bienno in cui fu applicata la prima Formula Uno del dopoguerra che ebbe una caratteristica peculiare. Proprio alla fine del 1951, le due soluzioni tecniche proposte dalla formula per i motori sovralimentati e non, trovarono il loro pieno sviluppo, dopo leggendarie battaglie sportive disputate da macchine e da uomini di uno stile di guida incomparabile, come Farina e Fangio che furono compagni e rivali.
Vincendo il Gran Premio d’Italia a Monza che lo consacrò campione del mondo, Giuseppe Farina (“Nino”) coronò un vecchio sogno, quello di conquistare un successo sul circuito che conta la maggiore tradizione sportiva e aggiungere il suo nome a quelli di Campari, Nuvolari, Varzi, Fagioli, Stuck, Rosemayer e Caracciola nell’albo d’oro.
Nato a Torino il 30 ottobre del 1906, sin da piccolo nutrì la passione per le automobili e per le corse. A scuola veniva accompagnato da un autista con la piccola Fiat tipo 0 e, disobbedendo agli ordini paterni, qualche volta induceva l’autista a cedergli il volante per qualche breve tratto. Fu la sua prima scuola guida. Più tardi, nello stabilimento di carrozzeria di suo padre in corso Tortona, con la complicità del fratello, la domenica riusciva ad attrezzare un circuito sul quale giravano per ore sulla piccola “Temperino”. La prima gara la effettuò come meccanico di suo zio Pinin Farina. Il debutto ufficiale come pilota avvenne, invece, nell’estate del 1930, in una gara in salita: la Aosta-Gran San Bernardo. Ma l’ Alfa 1500 uscì di strada e Farina riportò gravi fratture che lo tennero per qualche anno lontano dalle competizioni.
Divenne campione italiano nel 1937 dopo aver corso al volante di diverse vetture dimostrando una grande determinazione ed eccezionali doti di coraggio. Per lui ogni gara era una sfida che doveva assolutamente vincere: la macchina andava sempre sfruttata al massimo.
Trovò il tempo anche di laurearsi. Questo aggiunse un tocco alla sua già rilevante personalità e gli fruttò il soprannome di “dottore volante”. Le sue doti furono notate da Enzo Ferrari che lo chiamò a far parte della squadra dell’Alfa Romeo e, quando nel 1938 Nuvolari lasciò l’Alfa per passare all’Auto Union, divenne automaticamente il primo pilota della Casa milanese.
Dopo la seconda guerra mondiale, riprese a correre e, nel 1950, si ritrovò in Alfa in compagnia di Fangio e Fagioli formando la squadra che fu chiamata dei “3 F”.
Fu soprannominato anche “il signore della velocità” per la sua aria compassata con la quale guidava, senza sforzo alcuno. Era timido, il più timido degli assi del volante e il complesso della timidezza era forse la sola ragione d’infelicità nella sua vita. Aveva l’ hobby di collezionare francobolli e trascorreva intere serate nel suo studio ad incollare quei minuscoli quadratini di carta.
Quando l’Alfa Romeo decise di abbandonare le corse a fine stagione ’51, si dimise amareggiato lamentando il fatto che il suo passato non fosse stato adeguatamente riconosciuto.
Di questo grande campione, a torto, si è sempre parlato poco, sia quando vinceva, sia dopo l’incidente stradale che gli costò la vita, nel 1966, nei pressi di Chambery, quando al volante della sua Lotus Cortina finì contro un palo. Forse perché quella sua aria da gentiluomo schivo della pubblicità non era molto adatta al mondo delle corse e al suo entourage.
Juan Manuel Fangio (“el Chueco”) nacque a Balcarce (Buenos Aires) il 24 giugno del 1911. Disdegnò la vita dei campi e cominciò a fare il meccanico partecipando a qualche gara. Interruppe questa attività per entrare nella scuola di artiglieria e, al suo ritorno a Balcarce, creò una ditta di assistenza automobilistica: la “Fangio, Duffart e Cavallotti”. Nel 1934, partecipò alla sua prima corsa a bordo di una Ford con la quale intensificò la sua attività di corridore. Nel 1940 e 1941 fu campione nazionale argentino, essendosi imposto in competizioni lunghe e dure come le classiche “Carrera”. Nel dopoguerra, le vittorie di Rio, Buenos Aires, Montevideo e Rosario portarono Fangio alla popolarità di un idolo. Nel 1950, fu ingaggiato dall’Alfa Romeo ed entrò in lizza per il primo campionato del mondo di Formula Uno. Arrivò secondo, dietro Farina, ma, nei sui ricordi, quella fu la stagione più bella della sua vita di corridore anche se il titolo, che avrebbe conquistato per ben cinque volte negli anni seguenti, gli sfuggì per un soffio.
Allora non sapeva che sarebbe diventato un grande campione, un “maestro” per il suo stile di guida. Il fatto che l’Alfa lo avesse chiamato nella sua squadra fu: “come quando un cantante viene chiamato per la prima volta alla Scala “. Spesso , si servì di paragoni musicali parlando dell’Alfa. Diceva che il motore della sua Alfetta aveva raggiunto la perfezione di una sinfonia e che si sentiva “un violinista che guida l’archetto sulle corde di uno Stradivari”.
La stampa non commentò molto favorevolmente il suo accordo con l’Alfa Romeo. In molti si domandarono perché la Casa milanese avesse ingaggiato un pilota straniero. La verità era che l’Alfa non aveva fatto questioni di campalinismo ma aveva solo voluto i migliori.
Fu forse per smorzare le polemiche che il direttore generale, ing. Antonio Alessio, dopo la prima vittoria di Fangio a Sanremo, pronunciò questo discorso alla radio Argentina: “Sono lieto di portare il saluto dell’Alfa Romeo agli sportivi argentini nel giorno in cui il vostro campione Manuel Fangio assume per la prima volta la guida delle nostre macchine sugli autodromi d’Europa. Questo connubio tra il grande pilota argentino e la produzione automobilistica italiana d’avanguardia supera però l’avvenimento sportivo e meccanico per ribadire, attraverso gli oceani che pur sempre meno ci dividono, gli indissolubili legami di fraternità fra i nostri due popoli.
E pensando alle origini di Manuel Fangio sono fiero che tocchi ad un figlio di italiani, espresso dalla vostra terra generosa, di difendere in Europa i colori dell’Alfa Romeo antesignana nel mondo del lavoro italiano. Dalla incantevole riviera ligure che diede i natali a colui che primo segnò le vie verso le nuove Americhe, e da dove tanti nostri figli partirono a fecondare del loro lavoro la vostra terra, vada, in questa ora lieta di auguri e di vittoriose promesse, il saluto dell’Alfa Romeo alla gloriosa Nazione Argentina”.

In ogni corsa di queste due annate sportive che lo vide antagonista a Farina, ci furono aspetti importanti, più o meno inconsueti e anche polemici. Durante lo svolgimento del primo campionato del mondo, la stampa italiana accennò a Fangio come possibile vincitore ma si dilungò a dimostrare che per Farina non sarebbe stato impossibile superare l’asso argentino, sottolineando che, essendo le Alfa Romeo vetture di fabbricazione italiana, sarebbe stata “moralmente giusta” la vittoria di un campione italiano. I giornali argentini e la stampa europea non erano dello stesso parere e dimostravano, con classifica alla mano, che avrebbe vinto Fangio. S’insinuò pure, che poiché l’opinione pubblica reclamava un vincitore italiano, la direzione sportiva dell’Alfa sarebbe ricorsa a qualche espediente per venire incontro ai desideri degli sportivi italiani. Vinse Farina e vinse meritatamente perché nessun trucco può far diventare campione chi non ha la stoffa e i meriti.
Fangio si prese la sua rivincita il 28 ottobre del 1951 sul circuito di Pena Rhin a Barcellona. “Campeon del Mundo!” gridarono i trecentomila spettatori al suo giro d’onore. L’acclamarono in spagnolo, la sua lingua madre, e si sentì a casa. Fu un giorno indimenticabile che si chiuse tra gli “olè”, le mantiglie e i toreador di Barcellona.
Nel 1952, non potendo più disporre dell’Alfetta 159 per il ritiro dell’Alfa dalle corse, Fangio firmò due contratti che lo legarono alla B.R.M. e alla Maserati per le gare di Formula 1 e 2 pur restando fedele alla Casa del biscione per le corse delle categorie turismo e sport. Nel 1958 , nell’incredulità dell’ambiente delle corse, appese il casco e gli occhialoni al tradizionale chiodo.
La vittoria di due titoli mondiali consecutivi fu motivo di gioia e di grande orgoglio per tutti i lavoratori del Portello; non solo per i tecnici e i meccanici che avevano lavorato instancabilmente accanto ai piloti, ma anche per gli altri, quelli che avevano solo visto i grossi camion color grigio cenere, lasciare lo stabilimento di Via Traiano.
All’Alfa questa doppietta iridata sembrò sufficiente per chiudere (provvisoriamente) con l’attività nei Gran Premi, ma continuò a mantenere viva la propria immagine sportiva partecipando a competizioni che ricordano le vetture di serie.

Elvira Ruocco (clicca qui per discutere nel forum dedicato)

Nota: L'articolo è stato pubblicato sulla rivista "IL QUADRIFOGLIO"

 

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