Intervista a Filippo Surace: la mia Alfa

Un ambiente vivace, a volte litigioso, ma geniale e appassionato: è l'Alfa Romeo che emerge dai ricordi di Filippo Surace, 73 anni, tra i protagonisti della storia del Biscione. Uno spaccato aziendale insolito, ricco di nomi e di aneddoti che ripercorre la vita all'interno del Portello dal 1956 fino al trasferimento dell'Alfa nel nuovo stabilimento di Arese.

di Gilberto Milano





Filippo Surace


Ci racconti della sua prima volta in Alfa.
Sono entrato all’inizio del 1956, subito dopo la laurea, come sperimentatore nel campo dei motori a benzina. Stava per uscire la Giulietta Spider di Farina, la prima, e io iniziavo la mia attività in quello che allora si chiamava Servizio Esperienze Principale. C'era anche un Servizio Esperienze Speciale. Io ero nel Principale, dove si lavorava sulle vetture di serie. Il Servizio Speciale invece raccoglieva ciò che era rimasto
delle corse. Lì ho conosciuto molti colleghi che sarebbero diventati poi dei grandi amici, tra cui Bizzarrini col quale litigavo spesso; anzi, era lui che litigava con me... Molti poi finirono alla Ferrari. Dopo due anni avevo fatto la messa punto del motore della 1.9 Super, che poi era stato portato a 2000.

Dov'era il suo ufficio?Al piano terreno, all'angolo tra Via Traiano e Via Renato Serra, un’officina e niente di più. Quando passo con l'autobus vedo ancora la colonna dove c'era la
mia scrivania. Sopra di noi invece c’era la progettazione. Dopo due anni costruirono il Centro Ricerche con a capo l’ing. Garcea, il mio maestro, al quale ero legato da un rapporto straordinario. Iniziammo noi due, poi vennero tanti altri ingegneri neo assunti, molti dei quali fecero una bella carriera. Facevamo della ricerca, quasi esclusivamente teorica. Fummo tra i primi infatti a utilizzare i computer per uso scientifico. L’Alfa Romeo era molto avanzata dal punto di vista tecnologico, ma faceva uso dei calcolatori solo in campo amministrativo. Sto parlando dei primi Anni 60. Allora dicevamo che l’Alfa Romeo progrediva la domenica, l’unico giorno in cui potevamo lavorare in santa pace sui calcolatori dell’amministrazione. Nel 1968 invece riuscimmo ad averne uno tutto per noi, di quelli con le schede perforate…

Fino a quando è stato alla Ricerca?
Divenni direttore della ricerca nel 1966, incarico che mantenni fino al 1976, quando fui nominato Direttore tecnico dell’Alfa Romeo. In quei dieci anni ci impegnammo in vari studi e depositammo un sacco di brevetti; per esempio i freni a tamburo, i freni a tre ceppi, i freni bikini, che erano quelli a doppia suola. Tutte cose che poi furono utilizzate anche nelle gare. Si fecero studi sui sincronizzatori; ricordo che volli fare il confronto teorico tra sincronizzatori Porsche e sincronizzatori tradizionali (l’Alfa Romeo all’epoca montava sincronizzatori della Casa tedesca) e mi recai da loro per mettere a punto questi congegni.



Cos’altro ancora?
Svolgemmo studi anche nel campo della sovralimentazione. L’Alfa Romeo aveva una tradizione in questo settore, ma all’epoca non erano ancora disponibili i materiali resistenti all’alta temperatura, arrivarono molto più tardi. Per un motore a benzina il problema della sovralimentazione è abbastanza angosciante, per via delle temperature che sono sempre molto elevate. Eravamo ancora al Portello, sarà stato tra il 1965 e il 1970. A quel tempo non c’era la possibilità di costruire delle turbine a gas di scarico, non erano disponibili. Allora realizzammo una turbina idraulica: una pompa trascinata da un motore a pistoni che a bassa pressione, 80 bar, comandava una turbina idraulica la quale, a sua volta, faceva girare un compressorino a 90.000 giri. Si diede il tutto in mano all’ingegner Chiti che lo portò a 120.000 giri. E poi urlava perché si rompeva… Lo applicammo sulla GTA e vincemmo parecchie corse.

Eravate un gruppo di litigiosi…Sì, ma in senso positivo, eravamo tutti dei grandi amici. Si fecero altre ricerche nel campo delle vibrazioni. Noi eravamo un po’ i pompieri della situazione: ci lasciavano in pace a fare i nostri conti ma poi quando erano in difficoltà ci chiamavano per intervenire. L’Alfetta, per esempio, ritardò di un anno la sua uscita per problemi grossissimi di vibrazione provocati dal cambio: sistemare il cambio posteriormente è stata una sfida che hanno perso in tanti, la Porsche, la Lancia, la GM. Ci fu un lavoro di ricerca enorme per capire quale fosse il problema, fra l’altro noi avevamo anche la frizione dietro e questo creava un sistema risonante preoccupante; la Porsche non riuscì a risolverlo e riportò la frizione avanti. Anche la Ferrari si trovò in difficoltà: aveva problemi grossi sui sincronizzatori, poi, però, in qualche maniera se la cavarono anche loro.

Insomma, spaziavate in ogni campo…
Sì, abbiamo fatto anche molte ricerche sulla termodinamica, sull’iniezione e su quello che poi è diventato famoso in tutto il mondo, il variatore di fase; oggi ce l’hanno tutti, ma il primo è stato dell’Alfa Romeo. Lo progettò l’ingegner Garcea e poi io lo sviluppai a livello teorico. Tant’è vero che nel, ’76 quando presi la responsabilità di tutta la direzione tecnica, fui costretto ad andare negli Stati Uniti perché avevamo bucato in maniera clamorosa le prove di omologazione. Ci recammo con un certo senso di vergogna e invece fummo accolti come dei vincitori: ammiravano il fatto che l’Alfa Romeo, che loro consideravano una piccola azienda, aveva trovato soluzioni straordinarie per mantenere le caratteristiche sportive sulle proprie vetture.

Quali sono le auto più importanti su cui ha lavorato?
Per esempio, la vecchia Giulietta in tutte le varie versioni, comprese quelle sportive, come la Disco Volante; quando sono arrivato io il 2.5 non c’era più, c’era il 1.9 che dopo è diventato il 2.0 Super. Poi venne la Giulia, che fu l’evoluzione della Giulietta, una macchina che aveva tanti pregi e tanti difetti. Poi ci furono le varie evoluzioni: ci fu l’insuccesso di quel sei cilindri in linea, un progetto nato male, secondo me anche senza convinzione, per via della tassa sui motori sei cilindri. E infatti fu poi montato il 4 cilindri e la vettura fu depontenziata. Facemmo una serie di pasticci e i risultati non furono positivi. Venne realizzato il coupè, che era molto bello, ma non ebbe successo. Venne dato alla Polizia, e venne fatto un errore colossale perché la Polizia aveva bisogno di tutto tranne che di un coupè. Era molto bello ma non fu curato. Ci sono dei modelli che non so perché ma non sono amati e muoiono. La Giulia che aveva una scocca estremamente leggera, era una vettura completamente saldata, era costrita per avere la massima rigidezza, poi i tempi cambiarono. L’ultima fu l’Alfetta: uscì nel 1971-72. Noi eravamo ancora al Portello, ma poi la produzione fu spostata nel nuovo stabilimento di Arese.

Altre vetture che contribuì a lanciare?
Quando io divenni Direttore Tecnico dovetti completare progetti che erano già stati avviati da altri - per costruire una nuova macchina ci volevano quattro anni. Portai in porto la nuova Giulietta, che mi diede tanti problemi, e il 6 cilindri dell’Alfasud. Poi, sotto la mia giurisdizione, facendo anche degli errori, fu prodotta la nuova 33, la 90, poi le varie versioni del Gtd, del 6 cilindri, infine la 164. Dopo la 164, ho lasciato l’Alfa Romeo. In quel periodo sviluppammo i motori a V stretto, a doppia accensione, perché sapevamo che ridurre il numero delle valvole avrebbe migliorato la combustione. A quel tempo avevamo prodotto una grossa sperimentazione sul 3 valvole, sul 4 valvole, sul 2 valvole a V stretto. In particolare il 3 valvole ci sembrava la soluzione più adatta, ma l’azienda era già in crisi, quindi facevamo il meno possibile; abbiamo rifatto soltanto la testa a V stretto doppia accensione, che è andata bene.



Ha partecipato anche alla progettazione dell’ultimo motore Alfa Romeo, il 3.0 V6?
Quando si sviluppò il 6 cilindri io ero ancora nella Ricerca, non ero ancora responsabile tecnico, ma, come al solito, quando c’erano problemi chiamavano noi. Il 6 cilindri nacque male, con una serie di problemi, anche perché erano state adottate soluzioni che per noi erano nuove; per esempio, non avevamo esperienza sulle cinghie in quanto, tradizionalmente, utilizzavamo le catene. Ma poi ci fu anche un problema politico, io a quel tempo non avevo nessuna voce in capitolo, almeno dal punto di vista progettuale, però insistetti moltissimo perché secondo me l’Alfa Romeo stava per fare un errore grosso: voleva fare un 2.2 di cilindrata. Mi opposi, perché avevamo un 4 cilindri da 2.0 che funzionava egregiamente; un 6 cilindri a quel tempo era invece visto come un motore di alta classe per via della tassazione. "Non possiamo fare un 2.2" dissi, "ma un motore di grossa cilindrata perché altrimenti ce lo facciamo mangiare dal 2.0. E poi, il maggior numero di cilindri non può essere sfruttato per aumentare i giri se non di poco, perché c’è un problema di rumorosità, non sono vetture da competizione". Ci fu uno scontro molto forte in Alfa Romeo e io riuscii a portalo a 2.5 di cilindrata. Poi, quando divenni Direttore, lo aumentai ancora, fino a 3.0 litri.

Fu la sua ultima esperienza in Alfa Romeo?
Ricordo un ultimo lavoro sulla GTV. Dovevamo risolvere un problema di instabilità che si presentava sulla guida. Si risolse mettendo un ammortizzatore particolare, con un foro al posto delle lamelle, che invece di avere una reazione proporzionale alla velocità aveva una reazione al quadrato della velocità. Poi me ne sono andato, non ero più in sintonia con i programmi dell’Alfa.




CREDITI
Servizio pubblicato su www.motorbox.com, 11 Novembre 2001.
Testi di Gilberto Milano, Foto realizzate da Roberto Zini.

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