Storia Alfa Romeo: Giuseppe Luraghi, il presidente del boom

Diresse il Biscione in due fasi distinte, accompagnando la rinascita negli anni Cinquanta con la Giulietta e la grande espansione nel decennio successivo con la Giulia. La sua energia guidò la costruzione della fabbrica di Pomigliano d’Arco per l’Alfasud. L’addio brusco dopo contrasti col mondo politico




I finanziatori mettono a disposizione il denaro, i tecnici creano i prodotti, gli operai li fabbricano, gli addetti commerciali li vendono, i funzionari amministrativi ne tengono traccia. Ogni azienda si compone di queste figure indispensabili. A cui ne va aggiunta un'altra, altrettanto fondamentale: il dirigente. Nella moderna concezione di un'impresa dalle dimensioni non piccole, non si tratta di una persona sola, bensì di un gruppo il cui compito è organizzare e realizzare i progetti indicati dagli azionisti. Tuttavia al vertice si trova generalmente un solo individuo, al quale spetta il dovere di elaborare e approvare la strategia primaria, vigilando affinché essa proceda nei binari stabiliti. A seconda dello statuto aziendale e delle normative, questa persona è l'amministratore delegato o il presidente. Il top manager, insomma. Nella storia dell'industria automobilistica italiana (in realtà, dell'industria nazionale in assoluto), spicca una figura ormai lontana nel tempo, a cui però si devono modelli rimasti nella memoria. Parliamo di Alfa Romeo e auto come Giulietta e Giulia . Senza dimenticare le fabbriche di Arese e Pomigliano d'Arco, quest'ultima costruita appositamente per l'Alfasud . Un uomo a cui va associato il periodo di massima espansione della casa col Biscione sul cofano. Perché in larga parte la trasformazione dell'Alfa da marca di nicchia a grande impresa di successo è dovuta a lui, in due fasi distinte: prima in quanto direttore generale della Finmeccanica e poi come presidente della stessa Alfa Romeo. Era Giuseppe Luraghi, scomparso esattamente 30 anni fa.

All'anagrafe di Milano, dove nacque il 12 giugno 1905, era registrato come Giuseppe Eugenio Luraghi. Il padre, Felice, dirigeva una società d'importazioni ed esportazioni con l'India, morì nel 1920 a causa dell'epidemia di spagnola. Due anni dopo scomparve anche la madre, Giuditta Talamona. La sorella maggiore Maria prese in carico la famiglia (erano quattro in totale). Nonostante le difficoltà economiche, Giuseppe riuscì a laurearsi alla Bocconi durante il servizio militare, nel 1927, elaborando una tesi sull'industria aeronautica. Negli anni precedenti aveva praticato a buon livello il pugilato, vincendo parecchi incontri. Quest'attività sportiva ebbe una profonda influenza nella formazione del suo carattere, come egli stesso scrisse a più riprese. Al termine della leva si sposò con Liliana (soprannome di Maria Maddalena Poli), dalla quale avrebbe avuto cinque figli. Il primo impiego di rilievo fu nel Cotonificio di Rovereto, società appartenente alla Pirelli. Qui compì le prime esperienze amministrative e imparò a gestire i rapporti con l'estero. Ciò lo mise in evidenza presso la capogruppo, dalla quale fu assunto nel 1930 e vi rimase per vent'anni. Collaborò da vicino con Alberto e Piero Pirelli. A soli 26 anni cominciò a dirigere la filiale spagnola a Barcellona, poi a Siviglia. Tornò a Milano definitivamente al termine della guerra civile. L'azienda quindi gli affidò la direzione generale della Linoleum. Durante la guerra Luraghi esercitò in pratica il ruolo di direttore generale della Pirelli, pur senza averne formalmente la carica. Al termine del conflitto fu uno dei principali dirigenti. Ma nel 1950 entrò in contrasto con Alberto Pirelli sulla strategia aziendale, quindi si dimise.

Giuseppe Luraghi era già una figura prominente nel panorama dei dirigenti industriali in Italia. Il presidente dell'Iri (Istituto di ricostruzione industriale, la conglomerata di Stato fondata nel 1933 per ricostruire il settore bancario e poi estesa a soggetto a tutto campo), Enrico Marchesano, gli offrì la carica di vicedirettore della Sip. Quella che sarebbe diventata l'azienda statale dei telefoni era in quel periodo un'entità attiva soprattutto nel settore energetico, del resto il suo nome era Società idroelettrica piemontese. Ma dopo pochi mesi, nel dicembre 1951 Luraghi venne smistato alla Finmeccanica, di cui diventò direttore generale. E qui ci fu il primo incontro con l'Alfa Romeo, se pure a livello indiretto, si ritagliò il ruolo formale di vicepresidente. Il ruolo di Finmeccanica era finanziare le industrie meccaniche e cantieristiche acquisite dallo Stato, previa riorganizzazione. Impresa immane, perché si trattava di aziende sull'orlo del fallimento, Alfa compresa. Sul Portello comunque Luraghi aveva le idee chiare. I progettisti erano di prim'ordine ed erano buone anche le competenze tecniche degli operai. Mancava proprio l'attitudine all'impresa e al confronto con i mercati. Il primo passo, l'introduzione della catena di montaggio per la 1900, era stato già compiuto, però si doveva andare oltre. Luraghi chiamò al vertice dell'azienda milanese un vecchio amico dell'epoca Pirelli, Francesco Quaroni. E collocò in Alfa anche un ancor giovane consulente di Finmeccanica, l'ingegnere austriaco Rudolf Hruska. Quest'ultimo era stato nientemeno che uno dei principali collaboratori di Ferdinand Porsche nella progettazione del Maggiolino Volkswagen . All'Alfa Romeo serviva in fretta un modello di media cilindrata per ottenere buoni volumi produttivi. La Giulietta, insomma.



Uscì prima la coupé, nel 1954 come Giulietta Sprint. L'anno successivo toccò a berlina e spider. In cinque anni la produzione dell'Alfa Romeo passò da circa seimila a quasi cinquantottomila autovetture annue. La Giulietta avrebbe oltrepassato le 177.000 unità nel 1965, al termine della sua vita produttiva. L'azienda milanese non era più un peso ma un soggetto attivo. Però Luraghi stava guardando ben più in avanti ancora prima che la Giulietta berlina apparisse sulle strade. Infatti nel 1954 meditava già di espandere l'Alfa al sud, riconvertendo la fabbrica di Pomigliano d'Arco per realizzare un modello ancora più piccolo e fare concorrenza alla Fiat sul suo terreno (la 600 sarebbe uscita solo un anno più tardi). I progettisti gli avevano consegnato anche i disegni di una vettura che anticipava molto quella che più avanti sarebbe stata la Mini. Ma il mondo politico bocciò immediatamente quest'idea.

Luraghi era un manager indipendente. Non si piegava e accettava le conseguenze delle proprie scelte. Nel 1956 l'Iri aveva un nuovo presidente, Aldo Fascetti. Col quale Luraghi entrò subito in forte contrasto circa il riassetto delle attività di Finmeccanica; così, come accaduto alla Pirelli, egli si dimise. Negli anni successivi, di nuovo nel settore privato, guidò il risanamento della Lanerossi. Ma alla fine del 1960 il manager milanese tornò nell'area pubblica: altra guida all'Iri, Giuseppe Petrilli lo chiamò per diventare presidente dell'Alfa Romeo. L'obiettivo era l'espansione, il Portello non bastava più. Già erano cominciati i lavori per costruire la nuova fabbrica di Arese. Un investimento colossale che avrebbe assorbito tutte le risorse dell'azienda per un quinquennio. Ma la Giulia soddisfò tutte le attese; uscita nel 1962, rappresentò un successo tale (insieme alla coupé Giulia Sprint GT e la sorella Gta regina delle corse turismo europee, senza dimenticare la Spider) che contribuì a riportare in attivo i bilanci, una famiglia di modelli che al termine della produzione nel 1977 avrebbe superato il milione di unità. Sempre nel 1962 Luraghi diede il via alla costruzione della pista di prova di Balocco. E nel 1966 lanciò la sua sfida più difficile, perché tornò a guardare verso sud.

Mentre la Giulia macinava vendite e mieteva successi nelle corse, per Luraghi era tempo di programmare la fase successiva. L'Alfa Romeo nel 1966 era un'azienda solida e doveva attrezzarsi per raggiungere un livello superiore: l'Iri voleva moltiplicare la capacità produttiva, per soddisfare la domanda interna e le esportazioni. S'ipotizzava un raddoppio della produzione automobilistica nazionale al volgere del 1980, circa 2,5 milioni di vetture all'anno. L'Alfa avrebbe dovuto fabbricarne quasi 500.000. Quindi era inevitabile accelerare su modelli di larga diffusione e cilindrata contenuta. E la fabbrica di Arese non sarebbe bastata. Dunque il presidente dell'Alfa avanzò nuovamente la vecchia idea di costruire un nuovo impianto in meridione, nel complesso napoletano di Pomigliano d'Arco. Nel settembre 1966 la proposta fu presentata ufficialmente ai vertici dell'Iri. E questa volta venne accettata, perché le condizioni politiche erano sostanzialmente mutate. Questa è la genesi dell'Alfasud. Nel 1968 venne posata la prima pietra della fabbrica, nel 1972 si avviò la produzione del modello. Il resto è storia.

Ma le gioie furono di breve durata. Appena il tempo di lanciare l'Alfasud e una certa Alfetta in mezzo a mille problemi dovuti a congiunture sfavorevoli, forti agitazioni sindacali e violenze nelle fabbriche, per Luraghi si aggiunse la grana politica. Perché i partiti invadevano il campo in modo sempre più pesante. Non si accontentavano più del ruolo istituzionale d'indirizzo dell'attività industriale racchiusa nel gigantesco agglomerato delle Partecipazioni statali; volevano intromettersi direttamente nella gestione delle aziende per ottenere immediati tornaconti elettorali, anche a costo di compromettere la funzionalità delle imprese. Così fu per l'Alfa. Nell'estate del 1973 il Governo a maggioranza democristiana (presidente Mariano Rumor, coalizione con Psi-Psdi-Pri) contestò il piano industriale di ammodernamento del complesso di Arese. Soprattutto, cercò d'imporre la costruzione di una nuova fabbrica in provincia di Avellino, spostandovi parte della produzione destinata all'impianto milanese, per arrivare a 70 mila unità al giorno nel nuovo ipotetico stabilimento irpino. Sarebbe stato un bagno di sangue economico: si sarebbero dovuti duplicare forti investimenti già sostenuti, in un periodo nel quale il mercato era bruscamente calato. Luraghi oppose una fiera resistenza per diversi mesi, contro il Governo e i vertici dell'Iri. Inoltre negli ultimi mesi del 1973 scoppiò la crisi petrolifera che diede un altro colpo durissimo all'industria automobilistica, rendendo ancora più irrealistico il piano della DC. Ma alla fine il dirigente milanese dovette soccombere. Nel gennaio 1974 l'Iri fece dimettere la maggioranza dei consiglieri d'amministrazione dell'Alfa Romeo, decretando la decadenza del consiglio stesso. Luraghi fu quindi estromesso brutalmente dall'azienda che aveva contribuito a rendere grande. E nessuno dei piani irpini venne realizzato in quel periodo. Solo nei primi anni Ottanta fu costruita la fabbrica di Pratola Serra, per produrre l'Arna. Giuseppe Luraghi trascorse l'ultima parte della propria vita ancora al timone di aziende (private) importanti, come Necchi, Marzotto, Beretta e Mondadori, di cui fu presidente dal 1977 al 1982. Morì nella sua Milano il 10 dicembre 1991.


Fonte: https://www.gazzetta.it/motori









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