Tazio Nuvolari: 67 anni fa moriva l’unico pilota più grande della sua leggenda

Morto a Mantova l’11 agosto 1953, a 60 anni, a seguito di due ictus, fu l’icona dell’automobilismo antecedente la seconda guerra mondiale




Tazio Nuvolari. Il nome è un luogo comune nel quale ci ritroviamo, anziani e nostalgici, si ritrovano appassionati di ogni età. Il fisico da fantino, tutto nervi. Gialla la maglia. «Nuvolari rinasce come rinasce il ramarro», come da canzone di Lucio Dalla scritta con Roberto Roversi. Le gesta da agonismo viste da pochi, raccontate spingendo sulla retorica, gonfiate dall’immaginazione. Una sequenza di vittorie comunque strepitosa. Un’avventura rosso smalto, rosso fuoco, rosso sangue, abbinata ad Alfa Romeo e Ferrari, la lunga controversa rivalità con Achille Varzi, il suo opposto, il suo doppio, per un antagonismo italico ed eroico.

Chi era

Tazio: basta la parola. Nato a Castel d’Ario, quattro case tra strade bianche e piatte come piste da sfida e prova. Morto a Mantova l’11 agosto 1953, come oggi, ad anni 60, nel suo letto, contro ogni previsione, compresa la sua. Segnato dai chilometri, piegato da due ictus, ferito nell’anima dalla morte precoce dei due figli, Alberto e Giorgio, un dolore doppio che rese, se possibile, più avventato il suo fare. Corse in moto, per cominciare. Norton e poi Bianchi, anni Venti, forte subito, con la fissa per le quattro ruote. Fondò una scuderia propria, acquistando quattro Bugatti nel ’27, in società con Varzi. Insieme per un attimo, contro per sempre. Lui, tutto fuoco, l’altro: un gatto glaciale. Abbastanza per dividere l’Italia, per dare al fascismo una frenesia futurista supplementare. Rivali con le Alfa Romeo, all’alba degli anni Trenta. Mille Miglia e Targa Florio, le grandi corse, vinte e perdute in un delirio di azzardi e di leggende, come quella, tanto famosa quanto inventata, dei «fari spenti nella notte» per sorprendere Achille e andare a vincere la Mille Miglia del 1930. Le biografie riportano vittorie prestigiose e gesta sovrumane. Lui che corre ingessato, che guida senza volante, che perde i pezzi lungo la strada, che comunque rinasce, appunto, ce la fa. Di sicuro: classe e cuore. Una attitudine formidabile all’azzardo ma anche, soprattutto, una sensibilità da fuoriclasse. «L’uomo più veloce», come disse Gabriele D’Annunzio, donandogli nel 1932 «l’animale più lento», una piccola tartaruga d’oro, da allora per sempre il suo simbolo.

Le sue vittorie indimenticabili

Gli storici dal palato fine indicano come il suo più grande successo quello nel Gran Premio di Germania 1935 quando riuscì a battere le formidabili Mercedes e Auto Union con la sua Alfa P3, data per sconfitta certa. Altri citano la conquista della mastodontica Coppa Vanderbilt a Long Island, 1936. Altri ancora le sue vittorie con le Auto Union nel finale degli anni Trenta, rese preziose dopo il fallimento proprio di Varzi, distratto da un amore scandaloso e dall’abuso di morfina. Con Enzo Ferrari che Nuvolari chiamava «Il Sceriffo», un amore lungo con qualche sprazzo di odio. Nulla che abbia potuto compromettere il passaggio alla storia di un binomio così prestigioso, così utile ad entrambi. Le Alfa con il marchio del Cavallino, i cofani enormi, lui abbracciato al volante, cuffia, occhiali Triplex, la sua smorfia da godimento estremo, compongono ancora il poster più eloquente del mito più potente del Novecento. Velocità, l’urlo degli scarichi, i cavalli del motore a stravolgere un paesaggio silente. Un piccolo uomo che corre e si batte «dentro il fuoco di cento saette». Indimenticabile. Certo, altroché.




Fonte: corriere.it/sport

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