L’Alfa Romeo anni 80 ed i difficili problemi al cuore

La storia dei propulsori Alfa Romeo durante gli anni 80: dal boxer al V8 turbo.




Quando nel 1969 Ferrari varcò la soglia della sede Alfa di Arese, la sua prima casa, per incontrare il presidente poeta Luraghi, in cuor suo sperava di poter creare quel polo automobilistico da corsa, che per motivi diversi nel 1937 non avvenne. Precedeuto da un incontro tra il massimo esponente Fiat, Agnelli, e Luraghi stesso la costituzione del polo tecnologico da corsa sembrava ormai cosa fatta, soprattutto perché poteva vantare la benedizione dell’avvocato Agnelli.

Alla realtà dei fatti quell’incontro fu solo “accademia” come ebbe a dire il Drake, in quanto l’Alfa Romeo aveva gia’ costituito l’Autodelta, di fatto il proprio reparto corse, e non aveva interesse a sobbarcarsi di altri costi. Il sogno svanì per entrambi ma non svanì nell’Alfa Romeola voglia di misurarsi ai massimi livelli.
L’Autodelta, dopo aver recitato il ruolo di protagonista nel mondiale marche con l’Alfa 33, si riteneva matura per il grande salto e, capitanata dal corpulento ing Chiti, modificò il motore della 33 e dopo alcuni collaudi e continui contatti, trovò nella Brabham la squadra ideale per debuttare.

La squadra inglese aveva deciso di divorziare dalla Cosworth: il motore inglese, piccolo e affidabile, cominciava a difettare di potenza nei confronti dei v12 Ferrari ed Ecclestone decise che era ora di sfidare la scuderia emiliana colpendola al cuore.
Da subito venne attratto dal motore dell’Alfa Romeo usato nel mondiale marche e si rese conto che l’unità era molto più che una possibilità, in quanto dopo averne studiato le caratteristiche si accorse che con poche modifiche il motore era pressoché omologabile per la Formula 1.

La stessa idea venne alla Copersucar di Fittipaldi e alla Embassy Hill del compianto Graaham, ex stella del volante, ma l’influenza di Ecclestone e il suo fiuto per gli affari lo portarono a stipulare un accordo in esclusiva con la fabbrica meneghina.
Il motore progettato da Carlo Chiti, rispetto alla versione endurance, risultava essere più potente ed elastico e, grazie all architettura “boxer”, era dotato di un baricento più basso, fondamentale per sposarsi con le caratteristiche delle monoposto da sempre influenzate dal baricentro e altezza da terra. Le parti principali erano realizzate in alluminio, addirittura le bielle furono realizzate in titanio; aveva una distribuzione plurivalvole, 4 per cilindro, e un doppio albero a camme. La lubrificazione era a carter secco.

I problemi non mancarono, nell’anno del debutto: i motori italiani si erano messi in mostra più per i problemi che per l’effettiva validità in pista, infatti tra le problematiche la più curiosa fu il variare delle dimensioni, che obbligava la scuderia inglese a modificare gli attacchi del motore alla scocca. Il rapporto tra Brabham e Alfa stentava a decollare, ma le continue vittorie Ferrari, ma soprattutto l’assenza di validi fornitori sul mercato, fecero si che la collaborazione, pur con qualche attrito, continuasse.
A metà stagione 77 Ecclestone era stanco, i risultati non arrivavano, e, supportato dalla Parmalat, si decise che per tornare a vincere con un motore così complicato, serviva il miglior attore sul mercato: Niki Lauda.

Ai primi test con la macchina inglese, il pilota austriaco, fece notare che il vero problema era l’ereodinamica della macchina, che, viziata dagl ingombri del motore, non permetteva di sfruttare al massimo la potenza espressa dall’unità. Con una linea finalmente da seguire, e un pilota dalla classe cristallina, ecco arrivare i primi risultati. In apertura di stagione Lauda e la Brabham-Alfa, rappresentano, insieme alla Lotus 79 a effetto suolo, una novità interessante: infatti spesso l’austriaco si ritrova nelle prime posizioni arrivando poi a podio o come a Long Beach quando fino al ritiro per la rottura della pompa della benzina, fu l’unico a tenere testa alla Ferrari t3 di Reutemann.



Ma i problemi del motore erano tutt’altro che risolti; la macchina era troppo larga e in taluni circuiti i consumi erano così elevati da far sembrare “una corsa di taxi” la gara della macchina inglese. In Svezia, Ecclestone sviò l’attenzione sulle sue monoposto dotate di uno strano ventilatore posteriore, dichiarando che avrebbe debuttato una versione aggiornata del v12 Alfa. Questa mossa fu studiata a tavolino, perché il ventilatore posteriore, di chiara ispirazione Chaparal, rischiava di essere dichiarato illegale e la squadra inglese voleva dimostrare che le prestazioni assolute erano dovute al proprio propulsore e non già al dispositivo aereodinamico che estraeva l’aria del fondo vettura incollandola in pista. La gara svedese fu un trionfo, ma la federazione e la stampa specializzata fu lungi dal credere al miracolo motoristico e vietò il ventilatore, facendo precipitare la macchina anglo italiana nelle posizioni più consone al suo livello.

La successiva vittoria di Monza, decisa dalla squalifica di Andretti e Villeneuve, rimane l’ultima per il boxer Alfa: infatti l’introduzione dell’effetto suolo pose la casa di Arese di fronte alla necessità di riprogettare la propria unità. Lunghe riunioni in Italia e in Inghilterra portarono alla costituzione di un nuovo v12, più adatto alla nuova areodinamica imposta dalle wing car. La nuova Brabham, continuava ad omaggiare il motore, sposando il colore rosso Alfa Romeo come colore di base della propria scocca, ma fu l’unico omaggio. Il 1979 non fu l’anno del rilancio Brabham anzi, la disaffezione per le corse di Lauda, portò l’austriaco a dominare solo a Imola, durante la gara inaugurale non valida per il campionato: per il resto solo posizioni di rincalzo. Questo fatto indispettì non poco Chiti, toscano fumantino, che convinse il cda Alfa Romeo, e diede vita al progetto Alfa Alfa. Fin dai primi giri in pista a Balocco la macchina espresse ammirazione e un certo senso di nostalgia nei tifosi; l’Autodelta fece debuttare Giacomelli in Belgio con Alfa 179 e si ripropose di portare due vetture a Monza, una equipaggiata dal V12 con alla guida Giacomelli, l’altra con il vetusto boxer con alla guida Brambilla. Quest’ultima si classificò a 4 secondi dalla Renault in pole e in gara si classificò 12 a un giro. Questo risultato fu fondamentale per far concentrare tutti gli sforzi per il 1980 sul v12.

Il divorzio dalla Brabham fu un atto dovuto e per il 1980 l’Alfa Romeo si presentò ai nastri di partenza creando insieme a Ferrari e Renault quella parte legalitaria che spesso si è contrapposta ai team inglesi in sede di costituzione regolamentare. Sul fronte sportivo, i piloti scelti furono il confermatissimo Giacomelli, bresciano velocissimo innamorato del progetto Alfa Roemo e Depailler, pilota riottoso alla disciplina di team ma veloce e ottimo collaudatore.



La morte del francese durante i test in Germania, bloccarono lo sviluppo della macchina italiana, anzi il cda Alfa Romeo cominciava ad interrogarsi sulla necessità di impegnarsi in uno sport tanto costoso e pericoloso ma la pole position di Bruno Giacomelli al Glen fece rasserenare gli animi e contribuì a stanziare i fondi per la stagione 1981. Il motore italiano nel 1981 fu vittima della macchina, che senza i correttori di assetto per gran parte della stagione, recitò un ruolo da comprimario godendo solo dell’unica soddisfazione a Las Vegas quando Giacomelli arrivò terzo, ma avrebbe addirittura provato a vincere se fosse partito più avanti nello schieramento.

Il punto fermo della casa di Arese rimase il proprio v12, intorno al quale Ducarouge, il nuovo tecnico assunto per riportare n alto il marchio, diede vita alla 182 una macchina bellissima che regalò una pole alla terza gara e un podio a Monaco. Mentre in pista la macchina stentava, ormai il motore aspirato era un esemplare in via di estinzione: non è un caso che ben figurò solo in piste dove non era necessaria una prestazione velocistica elevata. Questo convinse Chiti a progettare il proprio motore turbo.
Durante le prove del Gran Premio d’Italia debuttò il motore turbo Alfa Romeo. La 182 venne modificata nelle dimensioni del cofano motore e nelle aperture sulle pance laterali e, seppur con qualche problema di gioventù dimostrò subito delle interssanti doti velocistiche.

Chiti andò controcorrente creando un motore a 8 cilindri, perché, a sua opinione, a parità di cilindrata, il frazionamento a 8 cilindri avrebbe sforzato meno gli organi in movimento del motore, come le bielle e i pistoni guadagnando in trazione ai bassi regimi ed eliminando totalmente il ritardo di risposta tipico del motore sovralimentato. Ma le doti di tecnico di Chiti non erano pari alle sue capacità politiche e a fine 82 tutto il progetto F1 venne dato in gestione all’Euroracing.

Nonostante gli sforzi dell’Ingegner Chiti di creare un motore innovativo, l’unità aveva dei difetti di base che portava ad avere tempi di risposta troppo lenti e un continuo surriscaldamento. Alla vigiglia della stagione 83, la squadra corse rilevò che i maggiori problemi erano dovuti alle turbine di costruzione Alfa-Alfa, troppo grandi, che non permettevano prestazioni pari ai motori dotati delle stesse prodotte dalla tedesca KKK.

Ma la rivoluzione in seno alla squadra non erano finite: la squalifica di De Cesaris in Francia per l’estintore vuoto, fu il “casus belli” che portò al licenziamento di Ducarouge, ormai un separato in casa, e portò l’ing Tollentino al vertice della direzione tecnica. Dopo questo terremoto l’Alfa Romeo riescì a conquistare due secondi posti e in Belgio, De Cesaris guidò la gara per lunghi tratti. Il complesso macchina motore cominciava ad interessare il circus, ma nella relatà dei fatti il motore 8 cilindri presentava diversi punti deboli come il maggior peso degli organi in movimento e la facilità a surriscaldarsi compromettendone la testata. L’ing. Tollentino chiese all’ingegner Tonti di mettere mano all’unità e di ovviarne i difetti. Tonti provò a testare diverse turbine kkk, ma i problemi continuavano: anzi oltre alle continue rotture dei turbocompressori il motore era affetto da una continua fusione della testata. Ai problemi meccanici se ne aggiunse un’altro di tipo “regolamentare”. Per la stagione 84 il regolamento calmierò la quantità di carburante obbligando le macchine italiane a rallentare nelle fasi finali delle gare per non subire l’onta di uno stop per mancanza di benzina.

Scoraggiata dai risultati l’Alfa Romeo decise di ritirarsi dalla Formula 1; col senno di poi, possiamo dire che il motore turbo aveva una base di validità, era dotato di 4 valvole per cilindro e un peso molto contenuto per gli standard di allora, solo 130 kg; fosse stato dotato di un iniezione elettronica Bosh, sistema in voga allora su tutte le unità specialmente tedesche, invece che quella Alfa e di turbine più adatte, avrebbe ben figurato.

Il motore Fu il capo espiatorio delle figuracce in pista, e fu strano questo atteggiamento, perché dall’ingresso dell’ Euroracing in poi, la scarsa competitività dei telai fu fondamentale nelle prestazoni dell’unità, tanto che l’Alfa lo cedette quasi a titolo gratuito all’Osella, rinnegandone anche il nome: il motore venne chiamato Osella v8.

Le difficoltà dell’Osella, squadra che tanto faticava a farsi spazio nella massima formula, non permisero al motore di evolvere anzi, al momento della messa al bando dei motori turbo per la stagione 89, con un certo sollievo venne accantonato facendolo sprofondare nell’oblio.
Questo fu l’ultimo motore Alfa di Formula 1, un bell’esperimento che se ben sviluppato, coi suoi 8 cilindri, avrebbe contribuito con la Ferrari a scrivere pagine gloriose nella storia della F1.


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Fonte: f1sport.it






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