Dagli Anni ’70 ad Atomica Bionda, ritratto dell’Alfa Romeo Montréal, sportiva incantatrice

Una copiosa descrizione dell'Alfa Romeo Montreal, grande coupè prodotta dall'Alfa Romeo negli Anni '70, tuttora degna del ricordo non soltanto degli "alfisti".




Chi di recente ha visto al cinema Atomica Bionda non sarà rimasto indifferente, oltre che dal fascino mozzafiato della protagonista Charlize Theron, dal gran numero di automobili “vintage” che affollano le strade della Berlino ancora divisa dal Muro: dalla Porsche 964 nera dell’antagonista James McAvoy alle vetuste Lada, Wartburg e Polski Fiat nella defunta DDR. C’è un’auto, tuttavia, che appare per una manciata di secondi alla fine del film: una silhouette nera che accompagna la protagonista e Til Schweiger verso l’aeroporto. Gli appassionati del Biscione avranno riconosciuto immediatamente la sagoma di una Alfa Romeo Montreal, primo esempio di muscle car in chiave italiana. Prodotta in poco più di 3000 esemplari dal 1970 al 1977, ebbe una vita commerciale osteggiata dalla crisi petrolifera del 1973; nonostante ciò, rimane uno dei più riusciti esperimenti della casa di Arese.

Perchè chiamare un’auto italiana con il nome della capitale canadese? Perchè dà un’aria “esotica”? No: nel 1967 si tenne a Montreal l’Esposizione Universale, e l’Alfa Romeo presentò per l’occasione i primi quattro prototipi carrozzati da Bertone che si tramutarono alcuni anni dopo, nel 1970, nel modello di serie grazie all’entusiasmo del pubblico nordamericano. Nei piani aziendali, l’auto doveva montare il semplice motore 1600cc della Giulia, ma per il modello di serie si scelse invece un inedito 2600cc otto cilindri a V aspirato, strettamente derivato dal 2000cc V8 del prototipo 33 Stradale – pur con potenza ridotta da 275 a 200 cavalli. Come già detto, a causa della crisi petrolifera che sarebbe giunta a soli tre anni dalla produzione, le vendite crollarono; nell’ultimo bienno, solo 50 Montreal uscirono dalla catena di produzione, terminando la produzione nel 1977.

Cosa si nasconde sotto la pelle? La Montreal è una coupè gran turismo 2 posti + 2 a scocca autoportante, dotata di sospensioni indipendenti a trapezi sull’anteriore e assale rigido al posteriore; i freni sono a dischi autoventilanti con servofreno a depressione. Il design presenta un profilo discendente “a camma”, con un lungo cofano sormontato da una presa d’aria -finta- e un ampio lunotto posteriore che termina in una coda tronca, sotto la quale escono i due terminali di scarico rivolti verso il terreno. Ma è il motore la delizia di questa vettura: sollevato il massiccio cofano anteriore, incernierato sul davanti, fa mostra di sè un otto cilindri a V con bancate di 90°, due alberi a camme per bancata comandati a catena per due valvole ogni cilindro, e -una vera raffinatezza- lubrificazione a carter secco. Sulla destra si trova infatti il serbatoio dell’olio, da ben dieci litri. L’accensione è a spinterogeno, con due bobine. Sotto l’enorme scatola del filtro in metallo, che contiene in realtà due piccoli filtri dell’aria rettangolari, si cela il sistema di iniezione meccanica SPICA (un’azienda livornese all’epoca di proprietà dell’Alfa Romeo, oggi estinta); mosso da una semplice cinghia dentata, dalla pompa serpeggiano i piccoli tubi metallici che conducono agli otto iniettori presenti sul lato di ogni camera di scoppio. Questo sistema di iniezione, oggi soppiantato dall’iniezione elettronica, si rese necessario per rispettare le restrittive normative antinquinamento statunitensi ma purtroppo sarà causa di enormi grattacapi per i proprietari delle Montreal a causa della sua inaffidabilità: non infrequenti erano le conversioni al sistema a carburatori. La potenza arriva alle ruote posteriori grazie a un cambio manuale ZF a cinque rapporti rovesciati, mentre gli pneumatici sono 195/70 su cerchi da 14 pollici.

Dal vivo, la Montreal tradisce molto le sue dimensioni: 4.20 metri di lunghezza, 1.60m di larghezza per solo 1.20m di altezza: non più grande di certe coupè odierne, eppure sia all’esterno che all’interno ti fa sembrare molto piccolo, dà quasi soggezione. Ho l’occasione di provare un esemplare del 1972 perfettamente conservato con soli 45.000km all’attivo e un solo proprietario, nel tipico colore arancione acceso monostrato, con interni in pelle nera e volante in legno. Proverò quest’auto per circa 200 km su percorsi misti, tra strade di città e tangenziali. Calandosi nell’abitacolo della Montreal, davanti a due enormi strumenti circolari che integrano anche l’orologio, il sensore della pressione dell’olio e l’amperometro, svetta l’enorme volante a calice da tre razze in metallo con corona in legno, dal piantone fisso. La grande circonferenza di questo volante è dovuta all’assenza del servosterzo e gli oltre 1400 kg della Montreal, nelle manovre da fermo, si sentono tutti sui muscoli delle braccia. Tra i rari e all’epoca costosissimi optional di questo esemplare ci sono un’autoradio Grundig originale dotata di quattro casse con antenna a scomparsa, vetri elettrici e condizionatore d’aria. Al centro della plancia, ben ordinati sotto l’autoradio, sei grossi pulsanti in bachelite -per vetri elettrici, quattro frecce, riscaldamento del lunotto, etc.- e le leve dell’aria condizionata; dal lato del passeggero il cruscotto in plastica nera si conclude con un ampio portaoggetti aperto. I sedili anteriori sono, come recitava una vecchia pubblicità, “comodosi”, per nulla avvolgenti; quasi a tradire la vocazione turistica, più che sportiva, della Montreal. I due piccoli sedili posteriori, al contrario, sono rigidissimi e il tetto spiovente impedisce alle persone troppo alte di stare comode. C’è solo uno specchietto sul lato guidatore, ed è una fortuna, perché in origine la Montreal usciva dalla fabbrica senza i retrovisori.

Prima di girare la chiave verso la posizione di avviamento bisogna calare una mano sotto la plancia e tirare verso di sé la leva dello “starter” per aumentare il flusso di aria e benzina nel motore, dopodichè sperare che l’otto cilindri parta subito: purtroppo le candele non originali (al contrario delle oggi introvabili Golden Lodge) tendono a bagnarsi di benzina, impedendo l’avvio. Il V8, una volta presa vita, non nasconde il proprio ruggito, trasmettendo una forte vibrazione in tutto l’abitacolo. Subito si muovono le lancette della pressione olio, dell’amperometro e del carburante – il serbatoio è da 63 litri. La frizione, idraulica, è granitica come non se ne trovano sulle automobili moderne, e il cambio ZF a cinque rapporti, precisissimo ma anch’esso faticoso da innestare, richiede non poca attenzione: la retromarcia è al posto della prima -e si innesta direttamente-, la prima è a sinistra in basso e così via. Ci si abitua in fretta tuttavia a questa “stranezza”, e una volta accesi i fari (con un piccolo rumore metallico, segno che le “palpebre” che coprono i proiettori si sono abbassate) e scaldato per bene il motore, sulla strada libera l’otto cilindri può sfogare la propria potenza di 200 cavalli, quasi staccandosi dal muso dell’auto – il cui telaio, bisogna ricordare, fu progettato per equipaggiare il più modesto 1600cc della Giulia. E una volta presa l’andatura giusta, l’auto diventa una piuma. I finestrini leggermente abbassati, una mano sulla corona e l’altra sul cambio pronta a ingranare la prossima marcia; autoradio rigorosamente spenta, perché il 2.6 otto cilindri a 90°, con “linea rossa” a 7000 giri, è un concerto che vale la pena di ascoltare: non ha il fragore degli “otto” americani nè la melodia di quelli italiani, ricorda curiosamente i boxer delle Alfa anni ’80. Per gustarne appieno la coppia è necessario tenere il motore sopra i 4000 giri, sfruttando i rapporti corti del cambio per spingerlo al limite, fino alla zona rossa dei 7000 – la spinta tuttavia è piuttosto docile e non ti “incolla” al sedile; sotto i 3000 giri invece si rivela “vuoto” di potenza, pur muovendo la Montreal con molta elasticità. Anche la frenata è tutt’altro che aggressiva, e i quattro grossi dischi autoventilanti rallentano la Montreal con dolcezza; forse troppa dolcezza, in certi casi, ma nonostante tutto apprezzabile se si tiene a mente che la Montreal non è una “superleggera”.

Nelle curve, soprattutto quelle affrontate in modo aggressivo, non è difficile mettere in crisi il posteriore; il differenziale a slittamento limitato è in grado di correggere le manovre esuberanti, ma le sospensioni ad assale rigido -tipiche, tra l’altro, delle muscle car americane- non brillano per dinamicità; complice di tutto ciò, anche gli pneumatici non molto larghi. Concludendo la prova, e bruciati quasi 100 € di benzina -il consumo si è attestato tra i 5 e i 7 kilometri al litro-, si esce dall’auto decisamente provati: la durezza dei comandi e la posizione di guida molto bassa, soprattutto nei percorsi cittadini, stancano; sui percorsi veloci come le tangenziali o i misti, invece, la guida della Montreal si rivela una ottima compagna di traversate, che ammalia tanto il guidatore quanto -piacevole dettaglio- le persone che hanno la possibilità di ammirarla. Siatene pure certi, con quest’auto è impossibile non farsi notare.

Gli esemplari odierni superano i 50.000 euro di quotazione, e i ricambi, poiché molti pezzi sono “riciclati” dalla coeva Alfa Giulia, non sono impossibili da trovare. L’unica debolezza, come già accennato, si può riscontrare nell’iniezione meccanica SPICA, la quale richiederà uno specialista in caso di riparazione o di semplice regolazione. Ma il look anticonvenzionale e la melodia dello scarico ripagano ogni suo capriccio.


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Fonte: opinionepubblica.com


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